#18 Sul dominio, anzi sul lavoro gratis
Un breve saggio sul dominio - intrapersonale, intraspecie, coloniale, di classe e ovviamente di genere.
Nel libro che sto leggendo - Ritorno a Reims, di Didier Eribon - ho letto una frase che dice più o meno questo: i dominati hanno sempre coscienza di essere dominati, di essere cioè la classe sfruttata e inferiorizzata (di essere un gruppo di persone che ha meno opportunità, meno scelta, anche se spesso non sanno quali sono quelle opportunità e quelle scelte), ma i dominanti non hanno coscienza di essere parte di una classe, di una collettività. Questo si riscontra molto facilmente nelle reazioni degli uomini al femminismo, che sono una gamma di declinazioni di questo concetto: “ma che c’entro io?”. E cioè, se io Marco Giovanni Pasquale non stupro, non picchio, non molesto (già sulla molestia non c’è da esserne così sicuri, Marco Giovanni Pasquale), perché voi femministe parlate di uomini in generale? “Che c’entro io?” è la traduzione libera della famosa locuzione Not all men!. Questa obiezione rivela la non-coscienza del privilegio, la non-coscienza di far parte di una collettività. La collettività dei dominati è più evidente perché si oggettivizza nell’azione della lotta. La lotta è sempre lotta per i propri interessi particolari, che non casualmente si allineano con gli interessi particolari di molti altri, ma rimangono interessi privati, concreti. La lotta invece perde forza quando è lotta per ideali, per i principi. Non voglio dire con questo che non si possa manifestare per i principi, solo che questo tipo di protesta ci pone nella scivolosa situazione di lottare per conto terzi, e il confine fra il farsi carico della giustizia nel mondo e diradare, rendere eterea, e quindi irrilevante la lotta è sempre molto labile. Per intenderci, è un po’ l’effetto degli studenti borghesi che manifestavano in favore degli operai, con in mente un ideale di purezza comunista e addosso un maglione di cashmere. Nelle lotte studentesche degli anni ‘70, racconta Eribon nel suo saggio-memoir, questi studenti avevano un’idea di come gli operai dovevano essere: impegnati politicamente e disinteressati ai simboli del benessere come televisori moderni e altri beni di consumo che erano una conquista della piccola borghesia. Con nessuna idea di com’era davvero la classe operaia, ma un’idea teorica basata su Marx, spiegavano ai poveri qual era il giusto modo di essere poveri.
Segue una breve ma precisa analisi (la più convincente che abbia incontrato finora) di come la sinistra ha perso il contatto con le classi di quelli che Eribon continua a chiamare, con un’attitudine battagliera francese che invidio, i dominati. Un’analisi che ci porta dritti al presente e ai problemi della sinistra italiana, dalla quale le classi meno abbienti si sono irrimediabilmente staccate. Dico classi meno abbienti anche se è impreciso; non parlo infatti solo delle famiglie dei bambini che vivono in povertà in Italia, 17% della popolazione minorenne, un dato fra i più alti in Europa. Parlo anche dei dominati del mondo del lavoro, che non si percepiscono come classe meno abbiente anche se di fatto lo sono: oltre al lavoro povero, una classe di lavoratori a partita iva in regime dei minimi (meno di 30.000€ all’anno di ricavo lordo) che non ha tutele, non ha malattia, non ha maternità, non ha certezza che domani avranno ancora un lavoro. Non vogliono essere chiamati precari perché forse non ambiscono al posto fisso, ma di fatto vivono precariamente, con un orizzonte molto a breve termine, e infatti non progettualizzano, né sul lavoro (non creano imprese, perché sanno che saranno tassati all’osso e ostacolati dalla burocrazia) né nella vita privata (non fanno figli).
Quindi c’è un legame forte fra il dominio di classe e il lavoro povero, anche nei lavori che tradizionalmente erano appannaggio della borghesia: i lavori creativi. Naturalmente questi lavori sono ancora appannaggio della classe media, ma una classe media che negli anni ‘90 si è molto allargata; insomma diverso è parlare di borghesia ai tempi di Moravia - la borghesia di La Noia - e parlarne oggi, quando una larghissima parte della popolazione italiana appartiene a una classe che è stata “media”. Forse ora non lo è più perché si è già impoverita, ma ancora si percepisce come classe media.
Come ormai sapete bene, dato che intersezionalità è diventata una buzzword, le cose non sono così semplici, nel senso che dominati e dominanti non sono tali in assoluto, ma in relazione ad alcune specifiche relazioni di potere. L’esempio migliore è proprio quello del maschio bianco, che è classe dominante rispetto per esempio alla “classe” delle donne (non subisce quella violenza quotidiana che la donna subisce in quanto donna) ma potrebbe essere dominato dal punto di vista della classe sociale. Ed è proprio questo gruppo di maschi bianchi poveri quello che ha meno probabilità di frequentare l’università, quello che resta indietro a scuola, quello che ha meno possibilità di emancipazione. E’ il gruppo sociale che rappresenta lo zoccolo duro del Trumpismo negli Stati Uniti e dei populismi in Europa. Allo stesso modo le donne sono dominate nei rapporti di genere, ma un certo tipo di donna - bianca, ricca, istruita - è dominante nei confronti di altre donne, altri corpi, altre esperienze e identità.
La quantità e qualità di contatti, opportunità, punti di accesso al successo e alla ricchezza non dipende da uno solo di questi fattori ma da molteplici fattori incrociati. Qualche giorno fa un’amica mi raccontava che dopo l’università aveva ricevuto un’offerta di stage da Christie’s - la più grande casa d’aste al mondo - solo che lo stage era non retribuito e prevedeva vari viaggi a New York autofinanziati. Un’esperienza molto formativa (ma a rischio, come tutti gli investimenti) a pagamento, a cui accede chi può farsi mantenere senza pensieri un anno in più: è così che tutti i lavori più prestigiosi e gradevoli vanno a chi già è ricco di famiglia. E quelli ricchi di famiglia si convincono che basti seguire quello che ti piace fare, o insistere e seguire i tuoi sogni per ottenere ciò che si vuole. La loro esperienza del mondo è stata quella e, ancora, non hanno coscienza di essere dominanti e privilegiati. Credo che ne abbiano in realtà coscienza, ma una coscienza più sottile, che punta al mantenimento dello status quo. Per esempio vedranno come “naturale” che tu invece che lavorare da Christie’s faccia il social media manager (esempio), perché non tutti possono lavorare da Christie’s, e vedranno come naturale che siano proprio loro a lavorarci, loro o i loro figli (prima loro, poi, uno su dieci, un povero molto volenteroso).
Forse perché sono sempre stata acutamente sensibile a queste dinamiche di potere e dominio sociale, ho sempre detestato e schivato il più possibile il lavoro gratuito. A livello proprio arcaico l’ho sempre trovato minaccioso. Questo da un lato è un retaggio familiare, una scarcity mentality, per cui si lavora non per piacere ma per guadagnare, e anzi il lavoro deve procurare sofferenza, altrimenti non è lavoro ma è piacere. Dall’altro lato, ma poi anche questo è un retaggio familiare da dominati, vorrei sempre evitare di essere sfruttata e dominata ancora di più. Perciò quando mi sono laureata ho rifiutato tutti gli stage - che ai tempi erano pagati 600 euro al mese - e ho preso l’unico lavoro che mi dava subito uno stipendio vero, allora era a Vodafone. E’ vero che mi ero già rassegnata a fare lavori “veri” (cioè lavori non culturali e con un discreto grado di sofferenza intrinseca, lavori da ufficio) e quindi non faceva tanta differenza fare powerpoint da Mondadori o da Vodafone.
Mi piacerebbe essere una di quelle persone aperte alle splendide opportunità, e non pensare invece, appena ricevo una mail, Vediamo di che inculata si tratta ora, tuttavia la mia idea di lavoro come sfruttamento - anche quello pagato, lavoro come sfruttamento intrinseco - è sempre stata confermata dalla realtà; è parzialmente una profezia autoavverante, data come dicevamo dall’idea che il lavoro non è piacevole, un’idea che qualcuno chiamerebbe limitante, ma parzialmente è anche una realtà storica ed economica, perché da quando sono entrata nel mondo del lavoro a oggi il lavoro è sempre stato sottopagato. In più di qualche caso è stato anche mortificante.
Tutti questi discorsi non li facciamo spesso e non hanno presa perché siamo stati separati dalla collettività, in uno sforzo che il sistema lavoro ha fatto in modo programmatico o meno di individualizzarci, cioè di renderci ognuno un individuo con il proprio destino diverso da tutti gli altri, nutrendo strampalate idee di riscatto tramite il merito e peregrini sensi di odio verso sé stessi per non avercela fatta (dev’essere colpa nostra, visto che in teoria potevamo fare qualsiasi cosa).
Sto anche riconsiderando la gratuità di questa newsletter, perché non fa forse parte della mia idea inter-generazionale e limitante che il lavoro creativo sia ozio, vada fatto gratis? Ogni mese mi chiedo: ma come mai mi sono auto-assegnata questo stage non retribuito? Cosa spero di ricavarne? Un’amica che lavora con i siti web mi ha detto: tu puoi aver fatto tante cose, ma Google non lo sa. E “oggi si è solo se si è conosciuti”. In quest’ottica, ci siamo tutti auto-assegnati molto free labour per mantenere il nostro posizionamento, il nostro posto nell’economia dell’attenzione, per essere conosciuti dai nostri lettori di riferimento. Ma da tutto questo free labour, tirando una linea, dovrebbe nascere qualcosa di retribuito? Tirando una riga in fondo ai calcoli del lavoro, come mai siamo sempre in passivo? Se penso a tutto il lavoro gratuito che ho regalato a Meta, nella forma di contenuti Instagram: cosa pensavo nascesse? Oggi mi sento piuttosto ingenua per aver mai scritto su Instagram, anche solo pochi paragrafi che comunque richiedevano pensiero e lavoro. Ma sto facendo lo stesso qui - abbiamo creato un mondo del lavoro, soprattutto culturale, per cui se non dai gratuitamente scompari, e scompare anche il tuo lavoro pagato. Ma forse sta scomparendo proprio il lavoro pagato, sopratutto quello creativo, e presto si potrà permettere di lavorare solo chi non ne ha bisogno. Forse, ancora, è già così, e solo un discreto grado di privilegio mi permette di passare alcune ore su questa pagina invece di fare manovalanza retribuita, magari l’equivalente in lavoro concettuale di girare gli hamburger da McDondald’s (per esempio scrivere i testi che chiamano content, mentre aspetto pazientemente che l’intelligenza artificiale inizi a farlo al posto mio).
Buon mese di Novembre, alla prossima (forse).