Velluto, by Raffaella Silvestri

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Dalla Sacred Femininity a Ballerina Farm

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Una storia del tentativo di abbracciare il lato femminile, valorizzarlo, farlo fruttare e scambiarlo; sempre, invariabilmente, rimanendo fregate.

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Raffaella Silvestri
Aug 17, 2024
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Cosa sia successo ai maschi ce lo chiediamo ossessivamente ormai da decenni, ci preoccupiamo più della crisi del maschio che dei diritti delle donne: il maschio si sente castrato? Snaturato? Qual è la sua natura? È natura o cultura? Ma anche di cosa voglia dire essere femminili si parla molto, da sempre. Anche Walter Nudo oggi ci insegna a essere completamente nella nostra “energia femminile” per attirare un vero maschio. Mi ricordo quando di “sacred femininity” se ne parlava solo a Bali, nei corsi tenuti dalle russe, che attraverso il neo-tantra riuscivano a conciliare alcuni elementi dell’empowerement anni 2000 con un ritrovato desiderio di farsi pagare le cene, ricevere regali, fino a farsi mantenere per poter finalmente evadere dalla schiavitù del capitalismo.

In principio, era la sacred femininity

Cos’è la sacred femininity? A Bali, a fine anni ’10, questi seminari insegnavano a connettersi con l’energia sessuale e il lato femminile che abbiamo mortificato, nascosto, represso, diventando tutte più maschili. Secondo questa teoria, l’energia femminile, yin, è un’energia di ricezione, di accoglienza, energia che ha un andamento ciclico, e per ricezione si intende anche ricezione di beni materiali. Ma noi non sappiamo più accettare regali, cene offerte, vacanze pagate. Morbidezza, rilassatezza, secondo queste teorie l’idea è che una donna dev’essere come una pesca, morbida fuori con un nocciolo duro e inscalfibile di identità, e non come un cocco – o qualcos’altro, sinceramente non mi ricordo quale fosse il frutto nello specifico, ma il concetto era che la maggior parte delle donne oggi sono dure fuori, cioè in apparenza toste, sempre sulla difensiva, ma poi in realtà, appena qualcuno abbatte quella barriera sono fragili, e quindi facilmente distruggibili. Onestamente non mi sembra una descrizione del tutto campata per aria. Naturalmente ci sono ragioni collettive, sociali per cui siamo sulla difensiva e poi fondamentalmente psicologicamente fragili di fronte al cosiddetto amore romantico e agli abusi subiti in suo nome. Essere rilassati è un privilegio degli uomini a cui non è mai stato fatto nulla di particolarmente brutto, e che non temono nulla di particolarmente brutto. Un leone è rilassato, ma è anche il predatore più temibile della Terra (credo). Per le donne non rilassate c’era il temibile appellativo di “acida”: lo dicevano molto di me, in adolescenza, si usava tantissimo come parola nei tristi anni in cui crescevamo, i primi anni del millennio – anche messo in musica: Acido acida dei Prozac+, 1998; questa ragazza qui è un po’ acidella, da Ragazze acidelle, Flaminio Maphia 2003. Ma moltissime donne “acide”, cioè che non stavano al gioco della femminilità dei primi anni 2000 (infantile, gattona, ipersexy, pizzi, imbottiture, aderenze), cadevano vittime del primo lovebomber o in generale tolleravano abusi micro e macro perché, semplicemente, non c’era nient’altro da fare. Recentemente ho ritrovato uno screenshot di dieci anni fa, 2014, in cui uno scrittore mediocre mi scriveva che avrebbe voluto stuprare la protagonista del mio romanzo, La distanza da Helsinki. Io rispondevo: ahah ok. Per dire che la barra per essere definite acide pre-2016 era piuttosto bassa. Dovevi comunque essere accomodante con un coglione che diceva di voler stuprare il tuo alter ego letterario. Sì, la barra era veramente bassa. Era comunque tutto una grande fatica.

E forse proprio in questa fatica si inserivano i corsi di fine anni ‘10 per diventare più morbida, più femminile. I corsi partivano dal presupposto che le donne sono esauste. Sono stanche, non solo per le cose che fanno, ma una stanchezza più profonda, data dal solo esistere, che si può spiegare in sintesi con la fatica di vivere in un mondo comandato dagli uomini, parlare costantemente una lingua straniera. Questa stanchezza veniva intercettata e veniva attribuita allo sforzo di essere maschili, dure, nella società contemporanea. Ma questo essere maschili in quel contesto diventava non un’inevitabile esigenza dovuta al patriarcato, ma un aver perso la via, una colpa della donna, che doveva quindi ricongiungersi alla sua reale essenza, femminile, pensate a una donna mollemente distesa su un triclivio.

Il riposo nella resa

In altre parole, era un invito e un’autorizzazione a lasciare andare le difese, dare agli uomini quello che volevano e quindi non essere più stanche, in contrasto con la propria natura. Naturalmente le donne sono stanche dal dover assumere atteggiamenti “maschili”, è vero, ma hanno delle buone ragioni per farlo: il mondo del lavoro è costruito su codici machisti di linearità, cieca resistenza, fanfaronismo, narcisismo, arroganza. Lasciar perdere questa recita può essere rilassante, ma significa anche non lavorare più nel sistema capitalista, ovvero non avere uno stipendio. Che è esattamente quello che le russe della sacred femininity suggerivano. Fatevi mantenere. Vi spetta di diritto. Questo concetto è migrato pari pari su Tiktok negli ultimi anni, ma è importante capire che contiene un seme femminista di riconoscimento del lavoro emotivo. E di riconoscimento del valore che una donna porta nel semplice stare in una relazione con un uomo. Non vuol dire che è in toto un concetto femminista, calmi, ho detto un seme. Fino al femminismo da girlboss dei ‘00s, questo non era mai stato detto o contemplato. Non era stato assorbito il fatto aritmetico che il conteggio cinquanta-cinquanta non è giusto o onesto, perché il mondo non è 50-50 tra generi, non c’è parità: né di salario né di opportunità di vita. Né era stato assimilato che, da una relazione con una donna, l’uomo guadagna molto più di cinquanta: lavoro emotivo, prestigio sociale tanto o poco in relazione alla bellezza e allo status della donna stessa – e la bellezza costa soldi e richiede lavoro. Costa mantenerla, la bellezza: duemila euro di extension, duemila euro di filler e botox preventivo, se non proprio operazioni con bisturi. In generale, anche per la più straordinaria bellezza naturale, costa gioventù, una valuta che fino a poco tempo fa non era considerata dal punto di vista economico. Essere femme, o feminine, cioè avere un’estetica considerata femminile, non è mai stato così difficile, non ha mai richiesto tanta attenzione, manutenzione, in generale intervento. Certo, la chirurgia estetica è diffusa sempre più tra tutti i generi, ma è nelle donne che il risultato di questi interventi di cosmetica e medicina estetica è diventato lo standard dell’essere bella.

Il valore della bellezza

Ecco i numerosi interventi non chirurgici sull’aspetto estetico che si sono diffusi capillarmente: smalto semipermanente (dai 25 ai 50€ ogni 3 settimane), capelli iper-voluminosi in un modo non riscontrabile in natura (extension, dai seicento ai duemila euro ogni due-tre mesi), denti perfettamente allineati dagli apparecchi invisibili (Invisalign, dai 6.000€ in su) e bianchi, “curati” (basta guardare una rom com dei primi anni 2000 per verificare che non è sempre stato così, nemmeno a Hollywood), skincare in vari passaggi con prodotti che possono avere qualsiasi prezzo; a volte ciglia finte, e questo solo prima di addentrarsi nei micro interventi di botox che ormai sono parte della routine di moltissime donne. E senza nemmeno mettere piede nel territorio dei vestiti e dello stile personale, che è diventato imperativo avere e che cambia molto più spesso di un tempo (i cicli della moda sono più veloci). Per l’idea di donna femminile, questo modello ad altissima manutenzione è diventato lo standard. Quando mi dicono che ho un aspetto androgino – veramente mi dicono che mi vesto “da lesbica” o da uomo gay – quello che davvero intendono non è tanto che metto sempre camicia e giacca, ma che non pratico la manodopera che servirebbe per essere femmina, e che non ho più la valuta della gioventù a rendere questa mancanza meno grave. Sono quindi estromessa dal mio genere in quanto mancante.

Il concetto di prendere coscienza del valore economico e sociale che si apporta e si offre a un uomo in una relazione, magari qualcuna l’aveva anche teorizzato nelle precedenti ondate di femminismo (Il mito della bellezza, Naomi Wolf), ma non completamente, e comunque non era del tutto stata teorizzata la femminilità come strumento, come valuta, come qualcosa di cui la donna si può servire, forse perfino riappropriare, secondo le ultime discussioni sul corpo anche portate avanti da varie influencer e in questo periodo in Italia dalla cantante Elodie, che rivendica di poter fare soldi anche con l’utilizzo della fisicità all’interno del suo pacchetto, brand di pop star, e di fare i calendari, chiudendo un cerchio nel discorso sull’oggettificazione. Il risultato finale è lo stesso: il corpo esposto sui muri delle officine, ma molti non capiscono la differenza: perché prima era oggettificazione e oggi è empowerement? Che ci sia una differenza è chiaro, ma che questa differenza sia rilevante – cioè che l’attuale calendario appeso al muro, o magari un profilo Onlyfans soft, sia meno sfruttante, è materia ancora aperta.

La migrazione su Tiktok

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