#7 Fuck this bullshit
Piccola antologia delle cazzate che ho sentito questo mese, e un suggerimento di lettura.
Il mese scorso, a marzo, non ho inviato la newsletter perché non avevo voglia di fare niente; il mio day job (scrivere per la pubblicità) mi sembrava non solo futile – credo che il lavoro non debba avere un senso particolare se non quello di darmi da vivere, e tanto meglio se riesce a darmi da vivere lavorando part time – ma addirittura difficile. Le mie funzioni cognitive erano intasate, sopraffatte dalle notizie, la guerra, la sofferenza, il trauma per interposta persona, l’incertezza riguardo al futuro .
Non avevo voglia di fare niente, e ci ho fatto anche una mezza proposta di articolo, sulla mia voglia di fare un cazzo, ma avevo talmente poca voglia che naturalmente non l’ho perfezionata, e non se n’è fatto niente. In seguito, qualcuno quell’articolo l’ha scritto – è uscito su Io Donna di qualche settimana fa – spiegando che eravamo tutti vittima della emotional fatigue. Dopo due anni di pandemia, e poi subito la guerra, siamo esausti. Ma poco conforto vi ho trovato, nell’articolo, perché la psicologa interrogata diceva che non è che soffriamo davvero per la guerra, per l’incertezza del nostro futuro economico, per lo shock, no: soffriamo perché proiettiamo sulla guerra le nostre faccende personali. Non ho capito bene la teoria, anche se ho riletto l’articolo più volte, a distanza di tempo, ma mi sembra, lasciatemelo dire, una grandissima cazzata. Così come mi sembra una cazzata quello che ho letto altrove, che la felicità è un’attitudine, e si può esercitare. Ricapitoliamo: siamo stati per due anni con la paura o per lo meno l’inibizione a fare qualsiasi cosa di sociale, divertente, ammassante, baciante, abbracciante; finito questo strazio (che, se lo chiedete a me, poteva finire prima, più o meno in concomitanza col vaccino), finito questo strazio dicevo, boom, la guerra in Europa, capito? La guerra in Europa, corpi straziati a tre ore da noi, stupri, bambini che muoiono, stragi… ma la felicità è un’attitudine, e si può esercitare?
Di cazzata in cazzata, è stata citata anche la Finlandia, che è il paese più felice del mondo, ma citata come se fosse una coincidenza, come se fosse una buffa curiosità: non che è il paese più felice del mondo perché c’è fiducia nel prossimo, nelle istituzioni, un abbraccio di servizi statali (nidi per i bambini, cura degli anziani), stipendi adeguati e una generale comodità nel vivere, no, è felice, si vede, perché hanno una buona attitudine. Yeah. Attitude is everything. Che poi questo è il modo per non combattere mai per ottenere le cose che ci renderebbero davvero un paese più felice, e cioè non meditazione ma riforme, non pensiero positivo ma stipendi più alti e prospettive per il futuro.
Non ho niente contro la meditazione, che pratico da 13 anni, ma questo uso spiccio delle discipline orientali per tenerci buoni mi manda ai matti. La meditazione buddista pratica l’accettazione; prima di accettare le cose bisogna però accertarsi di non poterle davvero cambiare.
Insomma, mi trovo qui: pessimista come Anna Maria Ortese che osserva la Napoli del dopoguerra, ma che dico, pessimista come Anna Maria Ortese che scrive i brevi saggi raccolti nel volume Corpo Celeste, nell’ultima parte della sua vita, esiliata a Rapallo, mentre ricorda tutte le case che l’hanno tormentata e le hanno impedito di scrivere.
Sto leggendo Anna Maria Ortese grazie al mio ex professore di letteratura italiana contemporanea (Statale, Milano) che mi ha fatto pacatamente notare, poco tempo fa, che avevo una certa lacuna su Ortese, e che se cercavo la mia voce forse ancora prima di Joan Didion, ancora prima di Rebecca Solnit, potevo ripartire da lì, dalle scrittrici italiane. È stato un incontro illuminante, lo dico senza ombra di ironia, ma procedo a rilento: mi sento in burn-out da marzo, il day job mi stressa, la scrittura, che pratico perlopiù per piacer mio, mi sembra essa stessa futile, un futile futile hobby, e neanche posso dire che vorrei viverne, perché quanti articoli e libri dovrei scrivere per viverne? Così tanti che mi verrebbe la nausea. Qualsiasi cosa applicata alla produttività fa venire la nausea. Quanto dobbiamo produrre? Quanto è la misura giusta, quanto dev’essere grande il nostro “prodotto”? La realtà è che trovo conveniente fare altro per vivere, un lavoro meglio remunerato e scalabile (voglio, devo prendermi una pausa ora), ma le risorse complessive sono sempre meno, la piscina da cui pescare è sempre più piccola. Le attività che mi privano di energie sono molte di più di quelle con cui un po’ di energia la recupero (principalmente, il nuoto, ultimamente non sono andata nemmeno al cinema). È, semplicemente, una questione aritmetica.
Il mese scorso ho scritto poche righe e mi sono sembrate così depresse e deprimenti che ho chiuso il file, ve le ho risparmiate. Questo mese, reclamo il fatto che la sofferenza va attraversata, sperimentata, prima di poter passare oltre e parlare di ottimismo e rinascita; della sofferenza bisogna parlare, e anche se perfino questo mese ho avuto dei momenti felici – molto felici – non riesco a parlarvi di altro che di sofferenza; mi sembra più rilevante, più grossa, più ingombrante. Scrivo sempre su Elle la rubrica Né signora né signorina, che è fra le cose che più mi ispirano e mi gratificano: lì ci trovate il meglio di me. Il peggio vi arriva direttamente qui, nella casella email.
A maggio andrà meglio, se non mi sentite: send help.