L’evento centrale di Marzo, nella mia epica personale, è stato senza dubbio il Grande Avvelenamento Indiano (GAI), che ha inaugurato il mese e scosso i pilastri della mia autorappresentazione. Da “non sono una di quelle persone sprovvedute che si avvelenano in India” a “continuerò a viaggiare in Asia anche a settant’anni”, ero un po’ una “ragazza per la quale viaggiare in India è il 95% della personalità” (una reference per i giovani, o giovanissimi).
Naturalmente l’India non è il 95% della mia personalità e io non sono una ragazza sono un’adulta, però qualche ferita all’ego il GAI me l’ha procurata. Del resto, sconfiggere l’ego e raggiungere l’illuminazione è anche il senso supremo dei viaggi in India per le ragazze che viaggiano in India, quindi tutto torna.
Ho letto un pezzo di Chiara Gamberale su Sette del 24 marzo che dice, a proposito dei padri, che “ripensano al viaggio in Amazzonia che avrebbero sempre voluto fare con il loro amico del liceo (…) Però non lo fanno, e non solo perché non possono, ma perché non ne hanno voglia. Avrebbero voglia di averne ancora voglia, magari. (…) Diventare genitore è avere nostalgia di una persona che sei stato, ma non potrai essere mai più”. Ecco, non mi pare che questa cosa si applichi solo al diventare genitori, piuttosto all’invecchiare, una condizione decisamente più universale. Certo, non diventare genitori può essere, per alcuni (notate tutti i disclaimer, si cammina sulle uova qui, quando si parla di maternità), un modo per illudersi di non invecchiare mai. Sicuramente lo è per me. A ogni modo, il grande avvelenamento GAI mi ha fatto capire che forse non ho più così tanta voglia di trovarmi dall’altro lato del mondo, seduta a bordo di un marciapiede, con una nausea incontenibile e un certo principio di subbuglio intestinale, con la mucca che si avvicina e si mette a ruminare la spazzatura ammonticchiata di fronte a te, e tu ti accorgi che la mucca indiana che ti era sempre parsa così carina, animale altissimo e sacro, in realtà quella mucca puzza in modo indicibile e si nutre di spazzatura.
La sera stessa, febbricitante e ripetutamente svenuta, mi sono messa sull’aereo e sono rientrata in Italia. Ho scritto un pezzo sull’India per Il Post, e molti nuovi iscritti a questa newsletter sono arrivati da lì, e ora mi vedono così, vomitata. Che vergogna.
Mentre stavo male ma non più malissimo ho finito di guardare Shantaram (Apple TV), che non è stato rinnovato per la seconda stagione; il libro più perfetto di sempre per una trasposizione sullo schermo, eppure il libro con le vicende più tormentate per quanto riguarda i tentativi di farne film e serie tv. Il film lo voleva fare Johnny Depp, esiste anche una locandina che non è stata generata dall’intelligenza artificiale, ma poi la produzione è stata interrotta, le riprese non sono mai iniziate e quindi esiste la locandina ma non il film. La serie, interpretata da un ben più modesto Charlie Hunnam (non sexy, non carismatico, ma con una certa – superflua – somiglianza all’autore-da-giovane e un fondamentale accento australiano), è stata una produzione costosa, interrotta dalla pandemia, e i risultati in termini di pubblico non si sono rivelati entusiasmanti. It’s no Ted Lasso. Non è una serie riuscita, tuttavia penso che dovreste vederla, perché ha decisamente un’atmosfera, un riverbero di quel mondo di expat in Asia di cui parlo nell’articolo lungo (o saggio breve) su Review n. 16. Forse mi è passata la voglia (per un po’) di andare in India, ma mi è rimasto quel senso di libertà polverosa di quei marciapiedi troppo stretti per camminare, costruiti da europei con l’ossessione del passeggio e usati dopo le varie indipendenze nazionali come parcheggio dei motorini.
In tempi più ordinari avrei di nuovo scelto un film visto al cinema per scrivere un saggio su un argomento, ma questi sono tempi straordinari, l’ultimo che ho visto al cinema è stato Il primo giorno della mia vita, uno strano film di Paolo Genovese a tema suicidio, visto all’Odeon di Milano che presto verrà parzialmente smantellato. Il tema è ricorrente in questo periodo, forse una coda di malessere da pandemia, forse un inizio di malessere da tempi bui (ho come tutti la sensazione semplicistica che le cose prima del covid andassero bene, e dopo il covid tutto va male), e consiglio di recuperarlo, anche se non amo vedere i film a casa, forse voi sì. Non è un film su cui avrei potuto scrivere tutto un saggio, non in questo periodo così movimentato e a suo modo vitale: mi sposto molto, sono sempre insoddisfatta, leggo di più, vado al cinema meno, perché inseguo i film di città in città, ma poi li manco. Il mio preferito di Marzo, ma forse era Febbraio, è EO, ma sconsiglio di vederlo a casa, è un film fatto perlopiù di ragli (una bellissima riflessione sulle altre specie, e sul mondo dal punto di vista degli animali non umani).
Quindi vi beccate questo quaderno dei consumi culturali, un format (e un nome) che prendo in prestito dalla Review, che ai miei occhi ha dato autorevolezza a questa forma di scrittura.
Ieri ero a una cena con persone molto colte e nessuno aveva ascoltato il podcast The witch trials of J. K. Rowling, che è molto in voga in America e Inghilterra e anche qui, in alcuni circoli. Ma il fatto che nessuno della mia cerchia l’ha ascoltato, e poi la reazione tiepida che c’è stata quando ho provato a parlarne in radio, mi hanno fatto capire che il tema, in Italia, è ancora molto di nicchia, e io sono stanca di parlare di cose di nicchia. Sento uno strano richiamo ai doveri dell’intellettuale che cercavano di insegnarmi al liceo Berchet di Milano, quelle mummie boriose (è notizia recente che gli studenti scappano dal liceo Berchet di Milano – sono sempre scappati, ma ben venga la rivoluzione: let’s tear the place down). Il dovere dell’intellettuale (non essendo una mumma boriosa ma anzi essendo stata una grande asina, lo uso ironicamente, intendo persona che si occupa di cultura) è parlare di cose rilevanti, sostanziali. Magari non sempre, magari non solo. Ma anche. Comunque, io vorrei che voi lo ascoltasse questo podcast, perché se ancora la questione non è rilevante qui, lo sarà presto. È un podcast molto lungo, da ascoltare in treno o sui mezzi, a mente sgombra, ma è equilibrato e ben fatto e non era facile, quando si parla di all things J. K. Rowling. Aggiungo un riferimento a una puntata del podcast The Daily del New York Times, una puntata che si chiama cancel culture. È del 2020 ma non lasciatevi ingannare dalla data, per noi è un recupero importante, direi una chicca.
Vi ricordate (Velluto n.6: Sulla Perdita) la mia disperazione per la chiusura dell’Arlecchino, e il sollievo quando è stato riaperto come Cineteca Milano (la statua di Fontana di Arlecchino però è stata rimossa, ricollocata chissà dove)? Sono passati mesi, molti mesi in cui ho osservato, in silenzio, e la programmazione della cineteca mi ha sistematicamente deluso. Piazzano per settimane e settimane dei film discutibili a orari improbi, il film interessante è l’eccezione, e non me ne ricordo neanche uno, insomma la programmazione è PIGRA. Il contrario di quei geni assoluti (credo siano genie) che gestiscono il Beltrade, che fanno vedere tanto e tutto e sempre al momento giusto, con una rotazione giornaliera, e che meriterebbero di gestire anche la Cineteca, se ci fosse una giustizia.
(Grazie alle persone che hanno deciso di sostenere economicamente questa mia pubblicazione.)