Un americano a Roma entra in un bar e chiede tre cubetti di ghiaccio e 9 espressi. Il barista dice che non si può fare, al massimo gli può fare un caffè doppio, che sarebbero 2 espressi. Alla fine la negoziazione si assesta su due caffè doppi, ovvero 4 espressi, cioè 4 “shot”. L’americano si allontana con il suo bicchierone (o bicchiere medio, con 3 cubetti di ghiaccio e 4 caffè) e racconta la storia ai colleghi.
Stacco, anzi flashback: un paio di settimane fa ero a una rilassata festa di compleanno nel cortile di un bar, attorno a un tavolo di persone più giovani di me, ad ascoltare storie di vario genere che mi interessavano poco o per niente, ma che mi stavano insegnando che anch’io suono così quando voglio insegnare cose alla gente, e ci tengo tantissimo che facciano questa o quell’altra esperienza che a me piace di brutto. Di solito considero questa una mia deliziosa-peculiarità, ma recentemente ho cominciato a capire che molte delle parti di me che considero deliziose-peculiarità sono una serie di comportamenti antisociali, disadattati, e borderline psicopatici. Per esempio stavo ascoltando istruzioni di skincare da una persona chiaramente esperta e vogliosa di condividere, che avevo anche un po’ incoraggiato (chissà quante volte lo hanno fatto con me, di farmi parlare per non dover parlare loro): l’unica cosa che conta è la vitamina C, diceva, se non mangi in modo adeguato prenditi un multivitaminico (e mi sono davvero per un attimo riproposta di fare una ricerca su Google per vedere quale “multivitaminico donna” potessi trovare in offerta), per il resto era tutta una serie sfumata di principi attivi e acido glicolico, l’acido glicolico me lo ricordo perché me l’ha detto anche mia sorella, ma io uso per la faccia la crema idratante del corpo, e infatti non posso dire che non si veda. Poi mi sono fatta raccontare di come si va in Vaticano in farmacia e profumeria, e lì ci sono un sacco di marche scontate e non normalmente disponibili in Italia: di nuovo, una cosa vagamente interessante e curiosa che non farò mai, visto che a Roma non mi muovo mai dal quartiere con la fontana delle rane, figuriamoci se vado in Vaticano. Comunque, nel bel mezzo di queste conversazioni ho pensato di dare un contributo anche io, e ho pensato che il mio contributo dovesse proprio essere di raccontare che avevo mangiato la pizza di Marziali (una specie di focaccia con la base croccante e condita con pomodoro e mozzarella di bufala) con il cappuccino. A quel punto una giovane che non conoscevo si è girata verso un’altra giovane e ha fatto una faccia schifata, quella faccia schifata che i romani fanno per qualsiasi cosa: come quando ho chiesto le calze con le dita dei piedi da Calzedonia (“cooosa? Ma io non le ho mai viste, che impressione!” – ok ragazza, ti assicuro che ci sono cose pure più strane nel mondo là fuori); quando ho detto che non mi piace il Pigneto, o quando in generale si accorgono che vengo da Milano e non rido alle loro battute del cazzo su Milano. Tuttavia, poiché ero ammantata da questa nuova consapevolezza e saggezza (che le mie peculiarità sono in realtà tratti antisociali, e che quando parto con i miei pipponi la gente mi tollera benevolmente, ma non mi considera un’eccentrica persona brillante da ascoltare con attenzione), poiché insomma mi sentivo saggia, non ho colto la palla al balzo per provocare e litigare (altra deliziosa-peculiarità: mi piace un sacco attaccare briga) e ho semplicemente lasciato il tavolo scandalizzarsi in silenzio. Poi ho fatto un’altra cosa non caratteristica e contro-natura (per me): ho smorzato la tensione dicendo che non era proprio una pizza, chiaramente, quella che avevo mangiato, era poco più che una focaccia. Al che al tavolo qualcuno ha detto che a Genova pucciano la focaccia nel cappuccino, gli altri non lo sapevano, o non ci credevano, e io mi sono affrettata a dire che era una cosa proprio tipica, è vero, e poiché fuori da Milano sono piuttosto tolleranti con gli usi e costumi regionali di altre regioni, purché non siano la regione di Milano e provincia, gli animi si sono calmati. Il che vuol dire che hanno tutti detto che faceva veramente schifo, ma che forse lo potevano fare, solo a Genova però (io no).
Fine del flashback.
Un tempo ero anch’io una provincialissima purista dell’IGP, soprattutto con popoli che non reputavo superiori - non ho mai avuto nulla da dire fin da piccola contro le stranezze alimentari britanniche: mi sembrava tutto una deliziosa-peculiarità, un mondo incantato di schifezze deliziose, capitanato da quella margarina che si chiama o si chiamava I can’t believe it’s not butter.
Invece in Finlandia avevo molto da dire sulla pizza con l’ananas e la sbobba che veniva servita alla mensa universitaria, che poi la sbobba è il piatto nazionale, una specie di zuppa lattiginosa con dentro pezzi di pesce e verdure e spezie che fanno sì che tutto abbia lo stesso sapore (un uso delle spezie spropositato si incontra anche nei ristoranti di alto livello). Se fatta bene può anche essere un piatto abbastanza degno di rispetto (non è comunque il mio piatto preferito della tradizione baltica, diciamo così), ma in mensa e nella maggior parte dei bar è invece proprio una sbobba.
La questione è: che ce ne frega di cosa la gente mangia? Perché non possiamo lasciare che qualcuno semplicemente si procuri un infarto con 9 shot di caffè espresso? Perché non possiamo dare al cliente esattamente quello che ci chiede, per cui ci paga, senza rompere tanto il cazzo?
Sono stati scritti fiumi di parole recentemente sulla questione gastronomica, perché se prima dell’attuale governo eravamo tutti felicemente bigotti e food-nazi, adesso i più woke di noi si sentono in dovere di saperla più lunga e spiegarcela: ehi, la cucina italiana in realtà è stata inventata nel dopoguerra, cretini, e la carbonara è nata perché venivano distribuite le razioni di bacon dagli americani, e l’ananas col prosciutto in realtà è buono. Quel genere di notizie che potete trovare sui giornali online fatti dai giovani, e cioè dai quarantenni, quei giornali che fanno sentire i propri lettori intelligentissimi, solo perché spiegano le cose in maniera semplicissima, manco fossero le classi differenziali riproposte da Vannacci (il generale).
Io dico due cose: la prima è che lo spirito essenzialmente conservatore del popolo italiano è da collegare alla burocrazia, forse già di origine borbonica, che rende in realtà più conveniente non fare piuttosto che fare, stare fermi invece di lavorare il 10% in più. C’è quest’idea a volte confermata dal sistema kafkiano di tassazione che se lavoro il 10% in più in realtà guadagnerò il 20% in meno, una cosa così. E avrò una serie infinita di rotture di coglioni. Quindi non voglio vendere 9 caffè, voglio vendere esattamente il consueto numero di caffè a persona. E non voglio venire a disinfestarti il giardino dall’oziorrinco, voglio semplicemente dirti che non c’è soluzione, poiché le sostante che potrebbero sterminarlo la legge dice che non le posso più vendere al dettaglio. E io no, non faccio più la manutenzione dei giardini perché voglio semmai lavorare sempre meno (questo è un vivaio nella zona della fontana delle rane, da cui come ho detto non mi muovo mai, per nessuna ragione, quindi per quanto mi riguarda rimarrò con l’oziorrinco, un indebellabile parassita che mangia le foglie di ogni cosa di notte, anzi tra poco me ne vado io e gli cedo completamente il terreno: che si mangi tutto, tanto tutto ricresce in questa terra baciata dagli dei).
La seconda è che non abbiamo niente a cui guardare, vediamo sempre meno cose luminose nel nostro futuro; che la generazione Erasmus si è estinta in molto meno di una generazione, che siamo sempre più insulari, sempre più voltati all’indietro. E se questo vuol dire che il passato glorioso e nobile ce lo dobbiamo inventare nelle piccole cose, e così sia: la pizza, il caffè, il parmigiano, il mandolino. Non abbiamo nessun impulso vitale a sognare il futuro, sia a livello individuale che collettivo: cosa può esserci di nuovo e eccitante nel futuro? Quali successi, vittorie, nuovi amori? Un paese in cui i giovani siamo noi, che chiaramente siamo invece vecchi, e i giovani sono privati di agency (agency vuol dire capacità di agire, e cosa devono agire, se nessuno si aspetta niente da loro?) Ed eccoli lì, infatti, anche loro a scandalizzarsi della pizza col cappuccino.
Oggi sono molto stanca. Aprile mi ha particolarmente spolpato, con il 25 culmine e botta di grazia (ho letto sul Foglio, un articolo – qui - davanti al quale ho fortemente annuito ).
Nonostante la stanchezza atavica ho pensato di riprendere a leggere ad alta voce, perché generosamente penso anche alle stanchezze altrui.
___
Ecco le cose che ho scritto questo mese:
- Rubrica di Elle in edicola dal 2 maggio, come sempre i pezzi su Elle sono solo in cartaceo
- Il Foglio Review - Intervista lunghissima a Elif Batuman, l’incontro più interessante che ho fatto da un po’ di tempo (in edicola per tutto Maggio)
- Un pezzo su Ottessa Moshfegh qui (il sottotitolo è sbagliato ma è già stato segnalato) - paywall
- Qualche recensione di libro che trovate sempre sul sito del Foglio + mio nome: