n.19 Buenas o locas
Invidio quelle donne che riescono a starci dentro, a vivere nella società maschilista senza finire emarginate, medicalizzate, zittite o in vario modo consumate, ma che riescono anzi a come out on top, cioè riescono a muoversi nella uomocrazia in modo da uscirne bene, vincenti. Onestamente non so come facciano, anzi so che lo fanno grazie ad alcune abilità che io non ho, due sopra a tutte, la comunicazione strategica e la pazienza. Forse è per questo che mi sono messa nel femminismo così presto, ed è per questo che continuo a sostenere che le battaglie sociali devono essere portate avanti per interessi personali, che sono gli unici non tradibili, non commercializzabili. Io sento di essermi messa nel femminismo per sopravvivere, per parlare; non come cosa buona e giusta ma come cosa inevitabile.
Qualche tempo fa ho proposto un articolo sugli Oasis (sì un altro, lasciatemi stare) a un interlocutore maschile, e ho ricevuto varie, diverse domande di approfondimento - legittime, ma queste tradivano una specie di fondamentale non fiducia in quello che avrei scritto, ma anche una seria differenza culturale, come venissi da un paese lontano. Ma come lo vuoi fare? Ma cosa vuoi scrivere precisamente? Ma non è meglio che scrivi dell’Inghilterra? Grazie a un’amica, una cara amica, ho detto NO, non voglio scrivere dell’Inghilterra, non voglio scrivere quello che dici tu, voglio scrivere quello che dico io, di me e degli Oasis e di com’è stato crescere per me. Era la prima volta che non trattavo la scrittura giornalistica come un lavoro in cui soddisfare il cliente, ma come una necessità di espressione il cui scopo finale è scrivere il migliore testo possibile. Non che prima scrivessi i testi male, non volontariamente almeno, ma mi sembrava fondamentale cercare di capire cosa il committente volesse da me e farlo contento. Non dico che non sia il caso di capire cosa ti chiedono, ma c’è un sottile equilibrio da trovare, tra capire quello che ti chiedono (sensatezza) e dire quello che vuoi dire (libertà). Comunque quel pezzo, dopo tutta la serie di domande, è stato rifiutato – “scusa, non lo vedo” – e dopo poco è stato pubblicato un pezzo identico negli intenti ma sui Nirvana, scritto da un uomo, peggio di come l’avrei scritto io. E IO MI INCAZZO, ogni giorno mi incazzo per qualcosa. Ma qualche lotta puoi anche lasciarla andare, mi ha detto un amico. Non riesco: se riuscissi lasciar correre non sarei in quest’affare del femminismo. Sarei una di quelle donne profondamente intelligenti che quando vedono un ostacolo ci girano intorno, e riescono comunque ad arrivare. Ho l’impressione, ma è un’osservazione assolutamente empirica, che prendere atto della disparità e dell’ingiustizia e lavorare all’interno di essa fosse più facile prima. Più il maschilismo era evidente, non sfidabile, più c’era la possibilità di capire le regole e provare a farcela all’interno di queste regole. Poiché mi sono messa in testa presto che queste regole era possibile – non facile, ma possibile – sfidarle, la mia vita e credo anche quella di molte mie coetanee è stata tutta una lotta, e spesso una lotta che abbiamo perso. È pieno di articoli mediocri sui Nirvana là fuori, e di come sono diventati grandi loro bevendo bocce di vino al parco e facendosi le seghe, mentre le narrazioni della nostra crescita restano ridotte al racconto dell’amica del cuore.
Per una serie di motivi soprattutto casuali – mi trovo a vivere vicino all’Istituto di cultura spagnolo – ho iniziato un percorso di lettura di autrici sudamericane e centroamericane. Ho letto questo libretto, Paseo de la Reforma, di Elena Poniatowska, che credo sia una delle principali giornaliste e scrittrici messicane contemporanee (questo libro non è tradotto, ma di Poniatowska sono tradotti quattro volumi). È un romanzo ispirato alla vita di un’altra scrittrice messicana, Elena Garro, forse la più importante dopo la poeta secentesca Sor Juana Inés de La Cruz. La protagonista del Paseo de la Reforma, Amaya, ispirata a Elena Garro, è piena di energia, carismatica, lovembomber, e anche un buco nero di inconcludenza, menzogna e pericolo. Dice Poniatowska:
“Nora es el anverso de Amaya, como si en esa época y en esa clase social, las mujeres solo pudieran ser o buenas o locas”.
Mi chiedo se non sia così anche oggi, che le donne possono essere solo o brave o pazze, e se tutte le volte in vita mia che mi hanno detto, bonariamente o meno, che sono pazza, e tutte le volte che ho provato a non essere o non sembrare pazza, quantomeno a stare al di qua di un limite che bastava un nonnulla per attraversare – se ti percepiscono pazza, o stronza, è la fine – se tutte quell’energia sia stata fondamentalmente sprecata. Quello per non sembrare pazza era poi lo sforzo cognitivo fatto per cercare di essere strategica o manipolatrice, essendo la manipolazione l’unica forma concessa all’intelligenza femminile. So che è stata energia sprecata. Che non c’è modo di fare qualcosa di importante e non sembrare pazze, ma anche che se sei troppo pazza non ti lasceranno fare niente di importante.
Ci hanno detto che non dovevamo fare le esagerate (o le stronze, che è la stessa cosa), ma anche che dovevamo essere libere, selvagge, indipendenti, perché così sono i veri artisti (enfasi sul maschile). Questa contraddizione è perfettamente espressa da Chiara Ferragni, la prima schiava dell’immagine e promotrice dell’essere brava (marito figli casa, tutto il corollario per dare l’immagine di una grande prossimità, a dispetto dell’evidente divario economico fra lei e il suo pubblico) che ci dice pensati libera, e cioè pensati pazza. Come se il suo successo fosse dovuto all’essere stata libera, una pensatrice indipendente, piuttosto che all’essere brava e obbediente. E sinceramente non so dare una risposta a questo dilemma, perché è evidente che Ferragni è stata sia schiava sia libera e innovatrice, e la percentuale delle due spinte non la so quantificare. Una brava schiava del consumismo e dell’immagine, ma anche, all’interno di quei confini, una certa indipendenza, un’ambizione che l’ha resa diversa dalle altre aspiranti blogger. Una fiducia in sé stessa che in una donna rasenta la follia.
E dunque, credo che siamo una generazione di donne in mezzo, temporaneamente retrocesse nell’immaginaria linea dell’emancipazione. Vediamo le regole, ma non vogliamo più seguirle. Vediamo l’ingiustizia, ma non abbiamo gli strumenti né per abbatterla definitivamente né per farcene una ragione. Questo causa una sofferenza costante e si interseca al tema generazionale dei millennial come gruppo di persone silenziato dalla storia, tra questi vecchi che non muoiono mai (da Hollywood a casa nostra) e questi giovani che ai vecchi assomigliano molto, come sottolinea tutto felice Bret Easton Ellis in un’intervista pubblicata sull’ultimo numero di Review. Il conservatorismo come conquista della gioventù, “La cultura millennial in una stanza, buttando la chiave”.
Non è un processo lineare. Ci si mette anche Tiktok a convincermi, con quei bei video di interviste fatte per le strade di Milano nel 1980. Le donne che uscivano dagli anni ’70 e mi sembrano più libere. È importante pensare all’Impero Romano anche per questo: la condizione femminile ha conosciuto momenti di grande libertà, perlopiù in concomitanza con la crescita economica e i momenti di floridità dell’impero, e momenti di grande repressione, soprattutto nel tardo impero e poi nel cosiddetto medioevo (per questo rimando al Secondo Sesso, o a Eva Cantarella). È importante sapere che non andiamo necessariamente a migliorare, o che non ci andremo automaticamente; è, davvero, tutta una lotta.
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Riferimenti:
- La parola “uomocrazia” è usata dalla filosofa Chiara Bottici in Manifesto Anarcafemminista (Laterza), e Nessuna Sottomissione. Il femminismo come critica dell’ordine sociale (Laterza).
- Elena Poniatowska, Paseo de la reforma (Alfaguara), in italiano qui le informazioni sull’autrice: https://it.wikipedia.org/wiki/Elena_Poniatowska
- IL libro messicano da leggere oggi, se ne dovete scegliere uno: L’invincibilie estate di Liliana, Cristina Rivera Garza (Sur), che è stato letto dal vivo alla libreria Tuba di Roma da Annalisa Camilli e altre scrittrici qualche giorno dopo la manifestazione del 25 novembre
- Un altro libro in lingua spagnola interessante che ho letto, l’autrice sarà a Più Libri Più Liberi: Selva Almada, non è un fiume (Rizzoli)
- L’intervista a Bret Eston Ellis su Review, a pagamento: https://review.ilfoglio.it/numero/24/
- Il saggio sugli Oasis che ho scritto, ma appunto ne scriverei già un altro, un podcast, pure tutto un libro magari, quando avrò tempo, quelle cose tipo “A Manchester con gli Oasis”: https://review.ilfoglio.it/stasera-sono-una-rockstar/
Buon Dicembre, ci risentiamo fra un mese.