Velluto #9 - Sorry we missed you
Fra tutte le cose grandi e urgenti di cui non ho ancora parlato nemmeno con me stessa – il lungo viaggio, il matrimonio, l’imminente fine del mondo, il mio trasferimento a Roma – mi sembra proprio di dovervi parlare del mio guardaroba, e del commercio di vestiti usati.
A fine settembre sono tornata a Milano con una grande valigia che avevo trascinato dall’Indonesia al Vietnam e infine in India, una valigia che aveva contribuito a una certa insofferenza relativa al viaggio. Di spostamento in spostamento, mi sono sentita pesante e stanca prima di quanto avrei voluto; forse è stata la grande valigia, forse semplicemente l’età. Forse è che tutte le altre volte che sono partita avevo la possibilità ipotetica di non tornare mai più, o almeno non tornare per qualche mese, o un anno. Una possibilità che adesso non c’era, e questo ha cambiato tutto, valigia inclusa.
Una volta a Milano, sono stata colta dalla solita euforia di tornare a casa (o l’euforia di tornare a Milano) ho fatto quattro o cinque lavatrici, messo da parte la roba troppo estiva, troppo hippy e troppo sexy, e sono partita, con la stessa valigia ma altri vestiti, per Roma.
Mi sono voluta impossessare dell’armadio che avevamo a Vienna, perché era l’unico che non sapeva di estranei, e ho disposto le mie poche cose, tutte fuori stagione, tutte perlopiù inutili.
La casa mi sembrava brutta e sporca – sporca lo era davvero, sebbene fosse già stata pulita – e il mio occhio non si era ancora abituato alle cose effettivamente inestetiche, che continuavano a colpirmi ogni volta che ci passavo davanti. Il pavimento, l’effetto sbagliato che fanno qui i mobili di Vienna, la mancanza di luce. Mio marito, che si vanta di essere un minimalista nordico, è in realtà uno che potrebbe continuare a usare il dispenser del sapone dei precedenti inquilini a tempo indeterminato, e questa è una questione di genere, totalmente una questione di genere, non mi ricordo più se l’ho capito leggendo De Beauvoir o uno dei mille libri di femminismo contemporaneo, ma sicuramente in De Beauvoir c’è (TUTTO è in De Beauvoir). Loro sono educati a interessarsi di cose oggettivamente più importanti (lo dico senza ironia e così lo scriveva lei), cose esterne, sono proiettati al fuori, al fare e costruire rispetto al conservare. La stupida lotta contro la polvere che continua a posarsi su tutte le superfici è una specie di compito demenziale che ci hanno messo in mano per tenerci le mani occupate, l’equivalente di svuotare il mare con un cucchiaio: “questo (la casa) è il tuo regno e tu sei la sua regina”. Lo scettro è lo swiffer e i poteri si esercitano nello scovare i mobili di design ai mercatini, o abbinare bene un insospettabile Ikea. A me di rendere bello il mio regno non è mai importato più di tanto, anche perché il mio regno per un po’ è stato una casa di 30 metri quadrati in cui non invitavo nessuno (devo ringraziare un’amica, che me l’ha arredata, se no avrei ancora il divano marrone di Mondo Convenienza, non perché mi piacesse, ma perché non sapevo che altro fare). Anche qui a Roma, mi interessava più cancellare le tracce degli altri, e così ho fatto, appena arrivata, incaricando una ditta di pulizie che si è presentata nel giro di 24 ore. Tre grandi uomini ucraini sono arrivati una mattina alle nove e hanno smontato, strofinato, spostato, lucidato. Mi piacerebbe dirvi di aver scovato una libreria Kriptonite Krossing su subito.it, ma no, quelle sono tutte in vendita a Milano.
Finita la pulizia, cioè quasi subito, mi sono trovata una marea di armadi vuoti. Non li ho riempiti, perché ho pochi libri e pochi vestiti, ma la loro vuotezza e pulizia mi dà sollievo. Perché io sono minimalista davvero, anche se non sono credibile, nessuno pensa davvero che io sia una con poche cose. Chissà perché. Su di lui è tutto più credibile, ha un’allure di credibilità, non solo perché è maschio ma anche perché è nordico. Sembra subito minimal, senza fronzoli, e invece non butta mai niente, ha un cassetto pieno di adattatori per la presa Schuko che lo ossessionano: perché in Italia abbiamo le prese diverse dall’Europa? Non lo so. Non me n’ero mai accorta che le prese italiane sono diverse.
Ho poche cose perché comprare implica uno sforzo cognitivo che mi manda in tilt (luci, rumori, passare in rassegna opzioni, ipotesi) infatti se posso non faccio neanche la spesa, o almeno la faccio nel solito posto, comprando le solite cose. In questo momento di brutale cambiamento l’elenco di attività che sono in grado di fare si è ridotto, perché tutto il mio cervello è impegnato a far fronte a ste cose che sono cambiate, supermercati, bar, armadi, interruttori, perfino la luce. Cucinare, fare il caffè, fare la spesa, pulire la casa, di tutto questo non so fare niente, me ne sto lì con lo straccio in mano a ciondolare di stanza in stanza fino a che non trovo un mini progetto del tutto trascurabile in cui buttarmi e farmi assorbire.
Per rilassarmi, mi libero anche delle poche cose che ho. Detto così sembro san Francesco. In realtà ho questa nuova fantasia di fare un file excel con i vestiti che ho. Posso farlo perché sono pochi, forse sono cento inclusi quelli molto hippy e molto sexy, dovrei controllare (l’excel appunto, l’excel). Dicevo che mi rilassa liberarmi delle cose, ma non lo faccio da tanto (perché sono poche da tanto) e non ho mai venduto i vestiti usati, a meno che non fossero molto preziosi. Vendere i vestiti usati vorrebbe dire crearmi lavoro del tipo che più detesto: organizzativo. Mi è anche sempre sembrato folle mettersi a spedire pacchettini da 5 euro da una parte all’altra dell’Italia, una specie di passatempo sadico nei confronti del pianeta, e poi quel film di Ken Loach Sorry we missed you mi ha dato il colpo di grazia, cerco di limitare anche Amazon. Per questo sono rimasta senza parole quando l’altro giorno ho scaricato Vinted. Non sapendo qui ancora a chi poteva essere utile donare le cose di cui volevo liberarmi, ho detto: le zoomer, che parlano tutte di Vinted, sapranno il fatto loro. Su Vinted ho visto finalmente tutto: il cambiamento climatico, la fine del mondo, le montagne di pacchettini di plastica nuova contenenti stracci vecchi spediti con la convinzione di fare bene. Magari dal punto di vista ecologico fanno davvero bene, mi appunto di chiederlo a qualcuno. Lo chiederò a Paolo Giordano, che sulla fine del mondo imminente ha scritto un libro meraviglioso, Tasmania, probabilmente il più bello che leggerete quest’anno (se poi il mondo finisce al ritmo a cui stiamo andando, l’ultimo bel libro che leggerete). Ma dal punto di vista di come stiamo a livello psicologico, questa frenesia di pacchetti a 2 euro che volano per l’Italia mi preoccupa. Io sono stressata dai cambiamenti, ma forse tutti, e tutto sta cambiando. Il capitalismo assorbe le nostre paure nei modi più imprevisti. Pochi soldi? Pacchettini a 2 euro. L’ho trovato crudele nella sua precisione, il capitalismo. Intento a succhiarci le ultime monetine mentre tutto crolla. La guerra, il clima, l’inflazione, gli excel. Non stiamo per niente bene. Speriamo finisca presto.
Riferimenti:
Sorry we missed you, regia di Ken Loach, 2019
Tasmania, Paolo Giordano, Einaudi (2022)