n.21 L'eterno gennaio della mente obnubilata
Carissimi,
in questo eterno gennaio sono riuscita a stare tre settimane consecutive a Roma, una settimana in Finlandia e una a Milano, non so come; la vita a Roma è piccola, come la libreria Ivar che ho ordinato da Ikea e che fa assomigliare lo spazio in cui lavoro a una cameretta di bambina. Contiene una trentina di libri: la bambina inizia le elementari, deve giusto metterci il sussidiario. In questo spirito regressivo, mi sono iscritta a una scuola di lingue; verso i vent’anni ero abbastanza fluente in spagnolo, ma solo perché avevo aspettato a lasciare un fidanzato-Erasmus più di sei mesi dopo l’Erasmus (e dopo la naturale scadenza della relazione), proprio con l’intento di perfezionare la lingua con continue visite a Pamplona. Ora però non ricordavo nemmeno le coniugazioni dei verbi, e nel gruppo di lettura di Villa Albani (la sede dell’istituto di cultura ispanica, il Cervantes) non riuscivo a litigare quanto avrei voluto con le innocenti signore che vi partecipano da dieci anni. Perciò adesso il sabato mattina vado a scuola, per tre ore. Ho litigato col supplente perché pretendeva di farci fare una pausa di soli dieci minuti, invece di 20, per finire prima. Gli ho detto Todos queremos salir temprano (soprattutto tu, maledetto scansafatiche di Malaga), pero los descansos son importantes para aprender. Sarebbe andata bene se mi fossi fermata – bisogna sapere quando fermarsi – invece ho voluto aggiungere un concetto tipo “para oxigenar el cerebro”, e su oxigenar mi sono avvitata in una serie di consonanti aspirate (oji-jenar) – per evitarvi la stessa mortificazione vi informo che si pronuncia semplicemente: oxi-jenar.
Per confermare la teoria del mio amico che dice che per gli standard di Roma “sono molto attiva”, ieri sono andata a vedere Past Lives, un film uscito a settembre nel resto del mondo che in Italia esce il 14 febbraio. È la storia di una ragazza coreana che si trasferisce in Canada con la famiglia all’età di dodici anni, e lascia indietro il suo amore d’infanzia, che non la dimentica e anzi la cerca dodici anni dopo, e dodici anni dopo ancora, quando sale su un aereo e va a trovarla a New York, dove vive ora. Lei si chiama Nora Moon, un nome inglese che si è scelta prima del trasferimento. Tutta l’idea di scegliersi un nome e trasferirsi in un paese più figo, meno “piccolo”, era la mia fantasia di bambina, ma anche la regista sembra pensare che quel trasferimento sia stato la svolta positiva della sua vita, la sua vincita alla lotteria, la sua grande chance: “I coreani non vincono il Nobel” dice la ragazzina ai suoi compagni di classe prima di partire. Infatti Nora Moon dal Canada si trasferisce a New York e inizia una carriera da sceneggiatrice, e a una residenza per scrittori a Montauk incontra quello che diventa suo marito, un americano. Quando arriva a New York Hae Sung (il suo amico d’infanzia coreano) è sposata da diversi anni e non parla la sua “vecchia” lingua con nessuno – “ho amici coreani, ma americani-coreani, non così coreani”. È un film romantico ma non nel modo sfacciato di One Day (che come serie uscirà a Febbraio su Netflix), perché Past Lives ha a che fare anche con le origini, con l’appartenenza ai posti, con le diverse personalità che abbiamo, a seconda della lingua che cambiamo certo, ma anche a seconda dei luoghi in cui ci spostiamo. Siamo naturalmente multi-culturali, dice la regista Celine Song, collegata su Zoom prima della proiezione.
Quando sono tornata a casa ho detto a mio marito che la nostra lingua è come quella degli immigrati: io non parlo la sua, lui non parla la mia, e in comune abbiamo una lingua che non è quella del paese in cui viviamo. Parliamo un inglese da expat, “ci esprimiamo con un centinaio di parole in due”, gli ho detto. Lui non è d’accordo, dice che la parliamo entrambi come una lingua madre, ma io dico che anche le lingue madri si possono scordare, e così è successo a Na Young che diventa Nora Moon. Noi le abbiamo scordate tutte e tre (anche l’italiano non lo pratico molto qui, a volte non parlo con nessuno per giorni, lo scrivo, ma non lo parlo). Ogni tanto qualcuno ha ventilato l’ipotesi che un giorno parleremo italiano fra noi: impossibile fargli capire quanto quest’eventualità sia ridicola e impossibile. E poco desiderabile, violenta: sarebbe come dover imparare una cosa da zero, essendo privati di una lingua madre.
L’attrice che interpreta Nora Moon è Greta Lee, quella che in The Morning Show fa Stella Bak, il braccio destro di Cory Ellison. Ha uno stile pazzesco sia in The Morning Show, dove i vestiti le danno un’aria un po’ androgina da tech bro redenta – e cambiano nelle stagioni arricchendo il suo personaggio - , sia in Past Lives, dove unisce l’understatement delle pubblicità di Uniqlo allo stropicciato oversize newyorkese.
Tutto il film vale anche solo un’unica scena, che si svolge in un bar, che è anticipata nella prima inquadratura: loro tre (Nora, Hae Sung e Athur, il marito) che creano le geografie con i loro corpi, lei che oscilla tra Corea e America, e anche i due uomini che gravitano l’uno verso l’altro senza rancori né gelosie, con un’incomunicabilità che è anche simpatia e curiosità.
Ho poi visto, sempre nell’ambito delle “molte cose che faccio a Roma” (per gli standard romani), l’anteprima di How to Have Sex, della regista inglese Monny Manning Walker, che sarà presto al cinema (distribuito da Teodora che aveva già “rischiato” portando in Italia Anatomia di una Caduta) e poi su Mubi. How to Have Sex è un po’ l’anti-Saltburn (il secondo film di Emrald Fennel, di cui molto si è parlato, visibile su Prime), nel senso che è tutta sostanza e micromovimenti dello stato d’animo della protagonista durante un viaggio, una di quelle vacanze chiassose e sbracate nelle isole greche che fanno i giovani inglesi di una certa provenienza. Tre amiche sedicenni a Creta in questo rito di passaggio, che fa riflettere sui nostri passaggi, sulle cose che abbiamo dato per scontato (l’imperativo del godimento, la prepotenza, la noncuranza dei sentimenti che provavamo, ma anche la qualità “definitiva” di alcune ferite e delusioni).
Alla fine non mi è dispiaciuto nemmeno Saltburn, tutto estetica e vibe e la vaga idea (non faccio spoiler) di una perfettamente normale famiglia aristocratica che incontra un personaggio in grado di creare scompiglio dall’interno. Con l’attore che interpreta Elvis in Priscilla di Sofia Coppola (e già Euphoria), che qui qui o non è ben diretto o non sa fare l’accento britannico, o si intrappola un po’ nel mood di Call Me By Your Name, ma non rende al meglio.
Buon Febbraio. Speriamo che sia breve.