Siamo forse, finalmente, un po’… saturi-pieni-rasi?
Mi pare che si stia creando una piccola onda, non oso dire movimento, che dice: toglieteci i social. Concita de Gregorio è stata l’ultima a dirlo, il 19 gennaio su La stampa, più nella forma ottimista e propositiva di togliamoci (figurati) dai social, ma è chiaro che il sentimento è lì da molto prima. Quando lo diceva Byung-Chul Han (La società della trasparenza, L’espulsione dell’altro, Eros in agonia) potevamo ancora permetterci di non sentirla come una riflessione urgente e concreta. Ma ora? Io vedo i segni. Vi vedo che anche a voi, ad aprire quell’icona, vi viene un po’ la nausea. Scorrete le palle in alto delle storie di Instagram sapendo già che NIENTE di quello che ci troverete vi interesserà, niente vi darà anche solo quel minimo guizzo di amore-tossico che è la scarica di dopamina indotta dai social. Cos’è cambiato? C’è differenza fra sapere che una cosa ti fa male (per esempio le patatine fritte) ma amarla ancora (io amo le patatine fritte, ma non ne sono schiava, perlopiù) ed essere invece saturi pieni rasi. Stufi. Nauseati.
La clessidra (fisica, proprio quella con la sabbia) per limitare il tempo passato al telefono l’ho comprata nel 2018, quando non c’era ancora quella funzione dell’iPhone che ti dice quanto screen time accumuli. Che poi quella funzione dello screen time non serve a niente, se non a farti abdicare volontà e responsabilità a un oggetto (e a sentirti male quando vedi “tempo di utilizzo: 5h”. Ma che dico cinque, facciamo sette. Come passa il tempo quando ci si diverte, o non ci si diverte, ma si spera di divertirsi). Tutti quei report forniti oggi dall’iphone ti danno il senso ingannevole che qualcun altro si sta prendendo cura della tua dipendenza, che quindi è risolta, la soluzione appaltato allo stesso strumento che ti tiene prigioniero. Cioè, almeno con la clessidra mi facevo carico della cosa, con un residuo di istinto di autopreservazione, ora invece con tutte le funzioni di tracking, blocco automatico, non-disturbare, reminder (volendo ti puoi mettere un limite ad alcune app e il telefono ti dice “il tuo tempo per oggi è finito! Aggiungi 15 minuti?” così ogni 15 minuti ti senti peggio, fino a che dici ma non rompere i coglioni, macchina, e li togli del tutto perché sei ma-la-to). Non ha più senso pensare a cosa potrebbe funzionare per te per smettere. Sai che se vuoi smettere non devi fare altro che usare i ragionevolissimi strumenti forniti da Apple, strumenti pensati per non funzionare e che infatti tu non userai.
Non è questione di produttività, la mia produttività non era alle stelle neanche prima dei social, anzi. Ho sempre lavorato tanto trovando sempre il modo più doloroso per farlo, cioè eplodendo il lavoro su un tempo di poliuretano espanso tipo tortura cinese. Non ero fra quelli che tornavano a casa e facevano i compiti e poi erano liberi, per dire. Li spalmavo su sei, otto ore, a volte mi svegliavo la mattina alle 5, intervallavo con Mtv, televisione di vario tipo. Insomma: non mi serve Instagram per dissociarmi dal presente, ci sono sempre riuscita anche da sola.
Il problema è che se sei stufo di una cosa (siamo tutti stufi, sono stufe perfino le influencer che almeno ci stanno per lavoro, anche se la cosa grave è che siamo tutti un po’ convinti di stare lì per lavoro) ma non riesci a smettere, o non puoi smettere, quella cosa è una droga o una violenza. Mi sembra di stare dentro all’ultimo film sulla principessa Sissi, quando davano l’eroina per curare la malinconia (Corsage). Siamo in quel punto della storia in cui una sostanza nociva è distribuita alla popolazione in massa, e poi dopo 10 anni si scopre che ci ha fritto il cervello, ma che volete, ormai siamo qui, e poi si sa, dipende da come li usi.
Il “dipende da come li usi” è forse la cazzata più grande che ho sentito sui social. Non ci vuole The social dilemma per capire che noi non siamo più intelligenti di quel dannato modello di business che guadagna con la nostra attenzione. Oggi ho letto, sempre sulla Stampa, Michela Marzano: “È Instagram che ci obbligherebbe a postare foto e video in cui si sprizza allegria e felicità da ogni poro? È Facebook che ci spingerebbe a pubblicare opinioni sulla qualunque illudendoci che non c’è bisogno di faticare per costruirsi un minimo di competenze?” – MA SI’, CAZZO. È letteralmente il contenuto di questo tipo che attira cuori quindi positive reward e viene premiato dall’algoritmo.
Comunque, come dicevamo, quello che magari una volta era eccitazione e dopamina è diventato un senso di nausea. Prendiamo le stories: non c’è NIENTE assolutamente NIENTE che voglio vedere, ma comunque cliccarci sopra è una specie di to do list del cazzeggio, meglio togliersela di torno il prima possibile. Non è tanto un problema di chi seguo io (pochi e buoni, tra l’altro, sui 300 account), il problema è che nessuno di noi dice cose interessanti sui social. Nessuno. E i giornali fanno post con slide semplificate, come fossero le notizie spiegate ai bambini, ma una particolare nuova specie di bambini iper-litigiosi e afflitti da disregolazione emotiva: noi sui social.
Certo, c’è da dire una cosa non da poco. Concita de Gregorio ha sempre avuto – e con sempre intendo “da che ho memoria io” – una voce, cioè un posto su una piattaforma, un pubblico a cui dire le cose che aveva da dire. Cioè, mi sembra ben logico che lei stesse meglio prima, quando aveva accesso a una piattaforma autorevole e non c’era il tribunale popolare e il costante pericolo di shitstorm (due fenomeni orrendi, che varrebbero da soli la chiusura dei social). Anch’io stavo meglio prima, a rincoglionirmi con Mtv. Ma per altri, cioè per la maggioranza delle “voci” che ascoltiamo oggi su qualsiasi cosa diventi una “questione” di attualità o cultura (quindi parlo dei giornalisti nati su Instagram, o amplificati da Instagram, che sono diventati parte della pletora di voci e di quello che è a tutti gli effetti il “discorso”), i social sono stati importanti per creare una piattaforma alternativa a quella dell’establishment, una piattaforma che poi ha finito per cambiare e in alcuni casi vivacizzare l’establishment stesso.
Cioè prima dovevamo leggere il giornale e le opinioni in media ben fatte ben scritte e ben pensate dei giornalisti, che erano secondo alcuni professionisti con un mestiere secondo altri una “casta”. Il sistema era chiuso: non c’era per esempio la possibilità di mandare ai grandi giornali un op-ed, cioè un editoriale che potevi sperare ti pubblicassero anche se non eri un giornalista o ammanicato. Dico questa cosa dell’op-ed perché mi sembra una significativa differenza con giornali prestigiosissimi come il Guardian o il New York Times, o il New Yorker, dove questa possibilità c’è, sarà remota ma chiunque può proporre un pezzo e magari fare un guest op-ed. In Italia no, siamo un paese di vecchi fatto perlopiù da circoli chiusi di boomer o di persone che dei boomer imitano i modi. Non mi stupisce che, arrivati i social, i newcomer di ogni disciplina ci si siano fiondati. C’è gente che l’ha fatto con successo, che oggi scrive anche sui giornali, sicuramente ha contribuito a rendere il dibattito più vario rispetto ai tempi in cui c’era solo Ernesto Galli della Loggia, per intenderci.
Io non sono mai riuscita a crearmi un mio pubblico parallelo, alternativo ai giornali, su Instagram. Forse era questo che provavo a fare, quando ancora mi sembrava di divertirmi? Anche per me invece i follower e i lettori sono due insiemi che quasi non si intersecano (voi, circa 600, siete l’eccezione). I follower che ho ce li ho perché molto presto ho iniziato a mettere foto a volte carine, a dire qualcosa sì, ma non abbastanza e non abbastanza in sintesi da creare un mio piccolo esercito di lettori. I lettori che ho ce li ho perché qualcuno, pur abitando il vecchio mondo, lo abitava in modo nuovo, e mi ha dato uno spazio.
Adesso ho parlato di scrittura e informazione, ma lo stesso vale per la moda e altri campi (vale perfino per psicologhe, psicologi, e ostetriche), ovunque i social danno una speranza a tutti di poter ottenere una voce (“voce” come “possibilità e privilegio di poter parlare a sconosciuti, preferibilmente molti”). Se queste voci poi diano vita a un mezzo di informazione che ci piace, che troviamo affidabile, realistico (dove cioè si trattano gli argomenti con una scala di priorità abbastanza aderente al reale) è tutto da capire.
Se sono così satura e piena rasa perché non mi tolgo dai social? Perché penso che ormai la realtà non esista più. Sì, ci sono delle esperienze più concrete di altre, ma i social sono un gioco “o tutti o nessuno”: se la gente continua a dire cose lì, anche quella è realtà, e va conosciuta. Togliersi dai social is the new “stare in una torre d’avorio”. Felice, con un sacco di tempo in più per leggere, ma fondamentalmente non nel presente. Ci vorrebbe una rassegna stampa dei social, un Morning di “cosa si dice su Instagram”. E poi ci vorrebbe, ma su questo non avrei grandi problemi, un altro modo di dissociarsi dalla realtà, poco faticoso, anzi idiota. Potremmo tornare a guardare i programmi del pomeriggio di canale 5. Vabbè, magari a chiudere Instagram aspetto ancora un po’.
Ps. Come il Guardian, ho anch’io un favore da chiedervi. Vorrei dedicare più tempo a questo pezzo mensile, e integrarlo con dei piccoli podcast che siano davvero podcast e non letture dell’articolo. Per ampliare questo progetto però ho bisogno di fondi, non posso continuare a farlo completamente gratis e pensare pure di farlo meglio, metterci dentro più ore eccetera. Ho aperto quindi la possibilità di iscriversi nella versione a pagamento (o di versare una cifra una volta sola). Per ora non c’è differenza fra versione basic e versione a pagamento, invierò come sempre tutto a tutti. Poi, magari, tra un po’, farò una differenziazione di contenuti. Grazie a chi non pensa che io sia completamente folle. E grazie infinite a chi deciderà di pagare per Velluto.
#12 Senza social
Premetto che sono qui perché ho letto l'articolo sullo yoga su Il Foglio Review. Non vado più sui social da qualche mese, a seguito di una serie di riflessioni e letture varie (The Age of Dopamine, Digital Minimalism, Jaron Lanier, ecc.) e da quanto leggo faccio involontariamente parte di un trend. Vorrei però fare alcune osservazioni.
Il fatto che i contenuti diffusi sui Social siano di solito scadenti è indubbio, però - almeno nel mio caso - l'algoritmo trovava sempre (ogni dieci cavolate) qualcosa di abbastanza interessante da darmi quel rinforzo positivo che mi faceva ritornare, probabilmente perché buona parte degli scrittori, editori, intellettuali, artisti e scienziati continua a stare e postare sui Social come se fosse indispensabile per il loro lavoro (e almeno in parte, purtroppo, lo è). Oppure se un Social ci delude, se ne cerca subito un altro più "ingaggiante", un po' come quando le canne non ti sballano più abbastanza e passi alle droghe pesanti.
Nel mio caso ho dovuto fare un mese di rigorosa digital decluttering (il famigerato "digiuno della dopamina") per rendermi conto di quanto fossi dipendente da quella routine ossessiva fatta di Facebook-Instagram-WhatsApp-Gmail-Telegram-Siti vari di news-Scacchi online e poi da capo, più e più volte. All'inizio è stato terribile, ma poi ho iniziato finalmente a sentirmi meglio e ho realizzato quanta poca qualità estraevo da quella massa di contenuti più o meno casuali, stupidi e ridondanti. Adesso leggo molto di più, sono tornato a comprare ogni tanto quotidiani e riviste cartacee e cerco di selezionare con molta più cura i contenuti cui dedicare la mia attenzione.
Sul discorso della democratizzazione dell'informazione dovuto ai Social sono solo parzialmente d'accordo. Nel senso che quello che è emerge dai Social di solito è il pazzo di turno, è una gara a chi la spara più grossa, e le persone competenti ed educate sono sommerse dal rumore di fondo.
La soluzione proposta da movimenti come quello dell'IndieWeb è tornare a un Web 1.0 rivisto e corretto, ai tempi non molto lontai in cui ognuno era costretto a farsi un sito web personale, dei cui contenuti però era proprietario e decideva come proporli al lettore, non come ora che l'algoritmo trita tutto e lo risputa come più gli piace. Fino alla prima metà del 2000 funzionava così e funzionava abbastanza bene: c'erano i newsgroup, i forum e i blog e chi aveva cose interessanti da dire poteva trovare ascoltatori interessati. Poi i pachinko dei Social hanno assorbito tutta la nostra attenzione e sono emersi gli Influencer e l'ossessione per la viralità.
Penso che quando la maggior parte di noi avrà disertato i Social, gli intellettuali e anche gli influencer saranno costretti a trovare altre strade per farsi sentire, che siano le newsletter, i podcast, la resurrezione dei blog o cose che devono ancora essere inventate, magari social di qualità a pagamento in cui si potrà avere il pieno controllo del nostro newsfeed e dei nostri dati. E coerentemente ho appena sottoscritto un abbonamento di incoraggiamento alla sua newsletter.