Velluto, di Raffaella Silvestri
Velluto, di Raffaella Silvestri
#4 Le città sole
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#4 Le città sole

La solitudine come equivoco
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Nel 2016 Olivia Laing ha scritto un saggio che ha avuto molto successo: The lonely city, in italiano Città sola, Il Saggiatore. In sostanza racconta di come si è trovata una volta a vivere a New York da sola, per una specie di equivoco: un uomo che l’aveva lasciata subito dopo il suo trasferimento, e nessun motivo particolare di tornare a casa (in Inghilterra). Questo è praticamente l’unico elemento narrativo del saggio, che poi procede a navigare con collegamenti creativi ma molto labili il tema della solitudine, partendo dagli artisti che hanno vissuto a New York, o che sono esposti a New York (quelli che lei osservava andando per mostre, da sola). Quasi tutti i riferimenti sono alle arti visive, Hopper, Warhol, Darger, tutti artisti che anche se non erano “abitanti permanenti della solitudine”, erano particolarmente sensibili allo spazio tra le persone, a come ci si può sentire soli anche in una folla. Ogni tanto c’è qualche elemento personale dell’autrice a tenere insieme il tutto: come quella volta che è entrata in un bar a chiedere dell’acqua, ma non l’hanno capita, e da questo episodio prende il via una riflessione sull’alienazione, sul linguaggio, sul silenzio e sulla distanza crescente dagli altri, che si alimenta del tempo che intercorre fra gli scambi umani. Se prendiamo questo come unità di misura internazionale di solitudine - la distanza di tempo fra uno scambio sociale e l’altro - è chiaro che la pandemia in cui ancora siamo invischiati ha fatto saltare tutte le metriche e tutte le tabelle. Ci ha distrutto la media: noi che viviamo da soli abbiamo passato anche giorni senza parlare con nessuno. Ma anche chi ha condiviso le varie zone rosse e lockdown con qualcuno, si trovava spesso in scambi che non avevano nutrimento esterno, scambi domestici e asfissianti. E poi adesso, che in maniera incerta siamo “aperti” da sei mesi (uscire è stato ed è tuttora come quando si risponde agli inviti con “tentative”, un gesto reso scarico dall’incertezza), anche adesso, le distanze tra i vari scambi restano larghe, più larghe di prima: la normalità è la solitudine, l’aggregazione (l’assembramento) l’eccezione.

Ho iniziato a leggere Lonely city un anno fa, a Novembre 2020 quando mi trovavo a Vienna – decisamente la mia città sola, dove il mio problema linguistico è un po’ più grande di quello di un’inglese a New York – e mentre piombavamo dritti nella seconda ondata di chiusure. L’avevo presa particolarmente male, perché nonostante tutti gli avvertimenti di Paolo Giordano (nel suo saggio breve “Nel contagio”, Einaudi 2020, e nei successivi articoli su La lettura), io una seconda ondata non me l’aspettavo proprio. Giuro. Sono così su tutto, a cavallo fra l’ottimismo e la negazione. Quando hanno annunciato il lockdown a Vienna – circa un mese dopo che era successo in Italia, con l’introduzione dei colori e la Lombardia in zona rossa – l’ho presa proprio male. Malissimo. Ero sopravvissuta all’autunno in Austria con un regime serrato di nuoto libero – meno intellettuale di Olivia Laing, con nessuna voglia di esplorare da sola i musei di Vienna, avevo fatto un paio di tentativi di scuole di yoga. C’era un corso il lunedì sera che era in tedesco ma l’insegnante traduceva un po’ in inglese, a mio beneficio, imbarazzandomi un po’. L’acqua era più accogliente: andavo a nuotare tutti i giorni, sempre nella stessa piscina, antichissima, di cui avevo presto imparato le regole e l’unico posto in cui mi sentivo a mio agio. Si capisce tanto dalle piscine pubbliche di un paese, e anche Olivia Laing fa un riferimento alle piscine scoperte di New York, che visita però fuori stagione, nella loro grandezza un po’ grottesca.

Una settimana dopo la chiusura delle piscine mi è venuta una cistite epocale, e appena sono guarita ho deciso di venire a passare il secondo lockdown da sola, a Milano.

Perché c’è da dire questo della solitudine: che è una condizione che alcuni di noi sono condannati a scegliere. Non parlo della solitudine come “me-time”, la solitudine di “saper stare da soli per saper stare con qualcun altro” e cazzate simili, parlo della solitudine subìta, la solitudine che non c’è un cane con cui uscire, quella che nel weekend hanno tutti altri progetti, quella che non hai nessuno che ti possa venire a prendere in ospedale dopo un intervento di routine, quella che ti dicono che sei tu che allontani gli altri, e sicuramente è vero, perché guarda gli altri sempre circondati di gente e amati e accuditi.

Che poi, avendo questa condanna, nella solitudine magari hai anche imparato a starci bene, questo è un altro discorso. Che poi, avendo questa condanna, hai anche imparato a fare lunghi periodi di socievolezza e socialità, che hai periodi che sei l’anima della festa e persone che ti chiamano, questo non toglie che la solitudine è dentro di te, e ci vuole un attimo a risprofondarci.

Ecco questo soprattutto è il messaggio di Città sola: che ci vuole veramente un attimo, un attimo solo e sei fuori, al di là, e quando sei al di là è molto difficile tornare indietro. La gente la annusa la solitudine, e visto che è contagiosa se ne tiene alla larga.  

Laing parla di solitudine come qualcosa che è presente nel “tessuto” (fabric) di alcune persone, come la depressione, la malinconia e l’irrequietezza. Allo stesso modo di questi sentimenti, subisce un processo di patologizzazione, ovvero viene resa una malattia; una visione in linea con la nostra società della performance, che vede la “normalità” solo nella coppia e la felicità come uno stato di contentezza da raggiungere e poi rendere perenne. In realtà, c’è maggiore vitalità in periodi di malinconia che in una vita di piatta, costante contentezza, e così anche la solitudine, pure non intesa in modo forzatamente positivo come “me-time”, ma come esperienza negativa, ha un suo valore intrinseco, una sua ricchezza (una possibile espansione della coscienza, come suggerito da Virginia Woolf nei suoi diari).

La città si presta particolarmente a coltivare un senso di distacco, di assenza di connessione con gli altri, perché la vita nella città è un’esperienza privata, ma l’accumulo di solitudini dà comunque idea di fermento. Scrive Marilynne Robinson in Le cure domestiche: “una volta che qualcuno è solo, è impossibile credere che possa mai essere stato altrimenti. La solitudine è una scoperta assoluta. Quando uno guarda dall’interno una finestra illuminata, vede la propria immagine in una stanza illuminata, la propria immagine tra gli alberi è il cielo – l’inganno è evidente ma tuttavia lusinghiero.  Quando invece uno guarda la luce dall’oscurità, vede in pieno la differenza fra questo e quello.”. Questo anche a dire che la città è tutto un guardare la luce dall’oscurità, perché la città è sempre luminosa, un costante fermento, e dalle nostre case vediamo questo fermento come un tram su cui non possiamo salire.

È difficile confessare la solitudine, infatti perfino in questi tempi eccezionali – gli ultimi due anni – se n’è parlato poco, la si ritrova giusto nella lunghezza delle liste d’attesa degli psicologi. È un sentimento vergognoso, qualcosa che si associa agli anziani lasciati in città ad Agosto – eppure secondo me ne soffriamo più noi di loro, che hanno vissuto la vita in reti e comunità più piccole della città, o quantomeno in coppia, fino alla morte del coniuge. Oggi un terzo delle famiglie italiane è composto da una persona sola. È una figata, ma questo dovrebbe aprire il campo a nuove forme di collaborazione, nuove reti. Amo vivere da sola, ma mi piacerebbe vivere nello stesso quartiere con tutte le mie amiche, per esempio. E in fondo perché non è un criterio che dovremmo prendere in considerazione? Probabilmente ci troveremo a prenderci cura le une delle altre in varie occasioni lungo la strada. Questo isolarci in case singole in quartieri lontani non ha nessun senso.

“What does it feel like to be lonely? It feels like being hungry: like being hungry when everyone around you is readying for a feast. It feels shameful and alarming, and over time these feelings radiate outwards, making the lonely person increasingly isolated, increasingly estranged”. Questa cosa che si appare disperati la penso spesso quando invito le persone a stringere contatti più ravvicinati (più ravvicinati delle chat sui social, per esempio, in cui si commentano le storie altrui con un emoji e si finisce per parlare per mezz’ora, parlare a chi, a un buffer digitale). Tipo invito le persone a uscire, a fare aperitivi, a cena, e quando non raccolgono mi sento desperate, nel senso che mi sento patetica (ma in inglese è più preciso). Non capisco se sono vittime della città sola, se sono vittime di rapporti funzionali in cui io non ho nessun posto (ho notato che le influencer escono solo con le influencer, le attiviste con le attiviste, eccetera), o se sono io che ho addosso qualche puzza di solitudine.

Prima della pandemia non mi sentivo così, o molto raramente, forse solo nelle feste. Quando la pandemia sarà davvero finita probabilmente non mi sentirò più così. Per ora vivo in questa città sola, l’unica cosa che c’è di diverso rispetto a Olivia Laing è che non mi pare che gli altri se la passino meglio. Mi pare che ognuno stia nella sua solitudine senza, per ora, voglia di uscirne. Olivia Laing trovava conforto nelle immagini, e anch’io forse amo il cinema fin da che ho memoria per lo stesso motivo. Più grandi sono meglio è. Perché l’unica cosa che non ho detto è che la solitudine stessa è un conforto, se no non ce la sceglieremmo. In ogni momento ci sono decine di persone con cui potremmo uscire, e a cui preferiamo quelle quattro, cinque, dieci file vuote attorno a noi.

Riferimenti:

Olivia Laing, The Lonely City. Adventures in the art of being alone, Canongate, 2016

Marilynne Robinson, Le cure domestiche, Einaudi 2018 (prima pubblicazione in inglese 1980)

Paolo Giordano, Nel contagio, Einaudi 2020

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