Velluto, di Raffaella Silvestri
Velluto, di Raffaella Silvestri
#6 Sulla perdita
5
0:00
-19:25

#6 Sulla perdita

5

Preparatevi: questo è un altro saggio di lutto, sulle cose che abbiamo perso. È anche un saggio polemico. La nota di speranza la voglio mettere all’inizio: sono convinta che le cose, in generale, a livello storico, vadano sempre meglio. Chi nasce oggi a parità di condizioni sarà più fortunata, più libera e meno ottusa di quanto sia stata io, siamo stati noi. Non credo alla frottola che il mondo finirà. Infatti se ci guardo retroattivamente provo una certa pena, impegnati com’eravamo a scoprire l’acqua calda. I ragazzi di oggi stanno facendo buon uso di quel poco di strada che abbiamo aperto noi, Millennial di mezzo, e sono più lucidi e netti nel rifiutarsi di sottostare alla folle dittatura dei Vekki Dispotici (i prof che ti danno della prostituta perché scopri la pancia, per dirne una). Va tutto bene. Nonostante l’apparenza, va sempre meglio.

Però pur migliorando collettivamente, ci tocca perdere, a quanto pare, un numero di cose che ci sono care, che sono buone, che avremmo fatto bene a tenere e avremmo potuto tenere se solo fossimo stati più accorti, meno approssimativi, meno incuranti e in generale meno dementi di quanto immancabilmente ci dimostriamo. Questo discorso ha a che fare anche con la sostenibilità della crescita nell’ambiente: sì, miglioriamo le nostre condizioni ma a che prezzo, e se il progresso è una cosa che praticamente si fa da sola, non potremmo metterci noi più testa, per indirizzarlo e non subirlo, in questa dicotomia perenne fra nostalgia del passato e accettazione acritica del futuro?

Giovedì scorso ero sull’aereo per la Finlandia. Accompagnata dal buonumore delle partenze, prima di decollare mi raggiunge il messaggio di un’amica: “ha chiuso l’Arlecchino”. L’Arlecchino era l’ultimo cinema rimasto in Duomo, una zona che per chi non lo sapesse era piena di cinema a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Ma l’Arlecchino era anche l’ultimo cinema storico di Milano. Un luogo di una bellezza rara, con una statua di Lucio Fontana, la sala e le poltrone recentemente rinnovate ma la tappezzeria, l’odore dei cinema veri.

L’Anteo, per dire, il multisala degli intellettuali, con la brutta ristrutturazione del 2017 è diventato una specie di Autogrill, non ha più niente del fascino di un cinema – sono andata a cercare l’immancabile articolo entusiasta del Corriere alla riapertura: il progetto è di tale architetto Riccardo Rocco, e “rispetta le indicazioni della Sopraintendenza”. Sarà il genius loci – quel palazzo era la Casa del Fascio, sarà la contaminazione con Eataly, sarà che è un UCI Cinemas per radical chic, fatto sta che all’Anteo non mi piace, non riesco ad affezionarmi e lo trovo un male necessario (salvo solo la programmazione).

Quando chiuse l’Apollo per fare spazio all’Apple Store di piazzetta Liberty (ne sentivamo la mancanza di un Apple Store? Non ci bastava quello di Rozzano? Domando) ci furono trattative per mesi (finite con la resa annunciata, e ora che Apple non è più l’equivalente tech di Prada, ma solo un negozio di cellulari, non ci sentiamo un po’ coglioni ad avergli svenduto la piazzatta Liberty, una delle più belle di Milano? Chiedo). Poi l’Odeon, pochi mesi fa: ma con la pandemia perdoniamo tutto, dimentichiamo tutto. Abbiamo perso tutti così tanto che le perdite ormai non ci toccano più. “La pandemia ha solo accelerato”, dicono. Ma accelerato cosa? L’inevitabile futuro? È inevitabile un futuro in cui siamo chiusi a casa a sorbirci le serie di Netflix, come i nostri genitori obbligati agli sceneggiati Rai, ma che dico Rai, con le serie Mediaset? Tutta questa scelta, tutta questa libertà, per scegliere il calduccio del trash conservatore.  

L’Arlecchino ha chiuso nel silenzio. Un articoletto, sul Corriere Milano. È la zona dello shopping, dice. Restano i cinema di prossimità (quali? Perché da casa mia nonché per tutta la zona di Milano sud, il cinema più prossimo sarebbe ancora in Duomo).

Ma non sto qui a fare l’attivista, che non mi viene neanche bene. Lasciatemi dire che vado al cinema da sempre soprattutto per tristezza, una tristezza serena però, un momento di concentrazione e solitudine. Vado al cinema anche per casualità, perché quando ero ragazza e per tutto il tempo del liceo e delle superiori ho avuto una tessera per l’ingresso al cinema il martedì pomeriggio. Valeva per tutti i cinema di Milano, che in quegli anni (vent’anni fa) erano tantissimi. Per questo li conosco così bene tutti, e so che se sull’Apollo non c’era neanche tanto da piangere – era già stato vittima di una brutta ristrutturazione – quella dell’Arlecchino era invece una sala di valore inestimabile, perché un luogo di silenzio, buio, un cinema solenne, è proprio come fosse una chiesa laica, immersa nel casino di corso Vittorio Emanuele. Il territorio ha bisogno di un suo ritmo, di recessi oscuri: alla luce della Rinascente è necessario si opponga il piccolo Luini che fa i panzerotti a 3.50€; non sono un’esperta di urbanistica, ma sento istintivamente che al chiaro deve corrispondere lo scuro, anche nelle strade, nella loro forma e nel loro significato. E così era l’area del Duomo: le traverse di Vittorio Emanuele sono sempre state malconce stradine qualunque – non starò a fare l’Amarcord del muretto del rap, che quello lo conoscono tutti grazie a Fedez – strade qualsiasi, quasi tranquille, con ristoranti dozzinali e, appunto, i cinema.

Il Duomo è sempre stata una zona di ragazzini, lo era da molto prima che fossi ragazzina io (è iconica una foto dei paninari al Burghy di San Babila, negli anni ’80). È una zona di casino, dove lo shopping di livello basso di corso Vittorio Emanuele e via Torino si affianca ai bar chic della galleria, ma era anche, come dice giustamente il proprietario del gruppo di 3 cinema di cui l’Arlecchino faceva parte, “un multisala a cielo aperto”, solo che adesso la sera si svuota, adesso il Duomo è solo luce, tutta Milano dev’essere solo luce, nelle intenzioni. Che poi è la pericolosa idea che piace anche ad alcuni milanesi, quella che cercano di propinare nelle rare narrazioni ambientate a Milano: che siamo tutti ricchi, algidi, luminosi e ben vestiti, oppure sordidi all’eccesso opposto, intenti a farci di cocaina.

Nella città manca il buio sano, organico, quegli spazi di scazzo che sono abitabili anche senza stare a mille; questi spazi mancano in centro, perché sono relegati tutti alla periferia, che col centro comunica sempre meno. In centro si sta sull’attenti, si va solo per consumare e comprare, lo “stare” è relegato alla periferia, che non si ossigena degli scambi col centro (e viceversa).

Tornando ai cinema, volevo solo fare una nota sul concetto di multisala: mi dovete trovare una sola persona che ama andare negli UCI Cinemas, anche solo una che non li ritrovi ributtanti luoghi sporchi e volgari, offensivi per l’utenza, che non importa quanto in provincia, non importa quanto lontana dal centro, sicuramente sceglierebbe di meglio, se potesse. Quello che amiamo, forse, è la creazione di un centro che offra varie possibilità, e questo erano i centri storici delle città che stiamo man mano distruggendo. Da ultimo: è chiaro che un cinema oggi non è un’attività profittevole di per sé. Non dico che debbano diventare biblioteche, ma un qualcosa di intermedio: è giusto pagare un biglietto per lo spettacolo ma è ora che lo Stato inizi a promuovere una cultura dell’audiovisivo, che non viene insegnato a scuola, che non viene conservato in nessun luogo pubblico. Come scriveva Lagioia tempo fa, “una città senza cinema che proiettano classici è come un mondo senza biblioteche”. E questo è il mondo in cui viviamo, e scegliamo di vivere ogni volta che chiudiamo un cinema.

Foto mie dell’Arlecchino:

5 Commenti
Velluto, di Raffaella Silvestri
Velluto, di Raffaella Silvestri
Velluto è una newsletter culturale. Film, serie, musica e libri per parlare di tutt'altro. Saggi, raccomandazioni, opinioni, idee su quello che succede.
Ascolta su
App Substack
RSS Feed
Appare nell'episodio
Raffaella Silvestri